Saggio su Prezzolini (1938)

«Letteratura», a. II n. 3, Firenze, luglio1938, pp. 111-118, poi raccolto, con il titolo Prezzolini e «La Voce», in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, «La Nuova Italia», 1951, e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

SAGGIO SU Prezzolini

Il cammino di Giuseppe Prezzolini ha un periodo essenziale: «La Voce», a cui Giuliano (il suo pseudonimo leonardiano) giunge in una progressiva differenziazione da Gianfalco (Papini) e in una precisazione della sua curiosità culturale e del suo zelo di organizzatore. Dopo quel periodo felice, in cui la sua prestazione giornalistica raggiunge la sua massima efficacia, seguono una sicura decadenza e una totale perdita di significato personale e storico.

La scrittura stessa (non si può andare per Prezzolini oltre questa parola) ci attesta tale cammino di progressivo intensificarsi della capacità investigativa e dell’entusiasmo che ne deriva, fino alla disintegrazione nei lavori di bibliografia e nelle prose sul Machiavelli. Ma la parola «curiosità», che facilmente si metamorfosa in «dilettantismo», non implica invece tale determinazione se se ne intende il carattere di provvisoria, volontaria ricerca di successivi stati di vita culturale accettati volta per volta con parziale ed intensa sicurezza di utilità. È in questo senso che noi presentiamo il fondo della personalità di Prezzolini, senza insistere troppo sul «toscano» o sul «protestante», per giungere al centro di un’anima riscaldata dalla breve fiamma della curiosità e non tanto sorvegliata da un istintivo senso di scelta fra realtà e sogno, quanto ispirata dal mito della cultura come paradiso degli uomini moderni. Il mito del toscano e del fiorentino (a chi si compiace di tali distinzioni di terra, aposterioristiche e tentatrici, si potrebbe offrire la nascita perugina del Nostro e la particolare nuance dell’Umbria nord-occidentale, che Toscana non è e Umbria muore) fu creato dallo stesso Prezzolini (v. nella «Voce»: La città) ed è convalidabile piuttosto come caratteristica insistentemente voluta di borghese. Ed è anzi sotto questo segno che nasce la curiosità prezzoliniana, sotto il segno di un risveglio della classe borghese (nazionalismo di classe), traducendo i miti romani di origine dannunziana in credenze di rinascita di una astratta società borghese decaduta nella presunta mollezza della democrazia parlamentare. Si sente sin dall’inizio come la generica ed animosa esuberanza papiniana cerchi un piú estetico ed individuale appagamento nella comune ricerca; che resta ai suoi sfoghi oratori e letterari una parte che non si dona, origine dei crucci, della conversione e anche della migliore pensosità di tale istrionica tragedia. Giuliano invece non pone tanto alla nostra attenzione un nucleo romantico di avidità dolorose quanto già la storia di una curiosità e la solidificazione (apparenza di superamento e vittoria) di una debole velleità estetizzante in brevi formule utili, al servizio della curiosità. E che ci sia in Prezzolini tale origine estetizzante lo dimostrano alcune pagine fantastiche degli Studi e capricci sui mistici tedeschi e, negli ultimi tempi, alcune pagine della Vita di Machiavelli. È un estetismo alla buona, timido di comparire e di costruirsi piú che in qualche accenno: «V’ha una luce propria per ogni edificio e per ogni stile: Orsanmichele va vista dall’alto quando sorge il mattino, la cattedrale senese col sole in faccia, palazzo Riccardi al lume di luna, Venezia verso il tramonto, le terre cotte emiliane quando il sole agonizza». È quasi un ricordo di adolescenza e di languori presto scordati, ma tale affLato estetizzante viene a formare il sostrato molliccio e vagamente pittoresco del linguaggio frettoloso del giornalista e del saggista.

All’inizio della sua «carriera» spirituale, Prezzolini fu letteralmente medusato dallo sguardo tragico di Papini che gli precisò provvisoriamente la sua domanda di vita in quegli sfoghi in cui cultura e sangue si mescolano arbitrariamente e l’eccitato bisogno trova pace nella creazione di un «irrazionale», in una ribellione al lento procedere della ragione. Il periodo del «Leonardo» è cosí un po’ il papinismo di Prezzolini, l’incanalarsi in un enciclopedismo dilettantesco che trovava terreno propizio in quella facile libertà, quando la rottura della tradizione pareva cosa decisa ed era gioioso ricominciare con ogni nascita un’Italia nuova. Le pagine di Un uomo finito valgono anche per Giuliano, anche se il suo accento batteva con piú precisione sull’utile pragmatismo che non sull’idealismo magico e sulla creazione dell’uomo-Dio. L’atteggiamento di Prezzolini da allora in poi è sempre stato quello di uno, che con fare discreto e fiducioso, si presenta alla folla e dice: «Ecco, ho trovato una formula piú adatta e piú pratica; con questa assesteremo tutte le cose». «L’arte del persuadere», gli articoli sul «Leonardo» ci danno questo senso della cultura: importante è non la verità, ma la vita, cui una certa verità ci persuade; cultura non è frutto di eternità, ma il risultato di una tecnica, un arricchimento dovuto ad una specie di magia attivistica.

Alla fine del «Leonardo», Prezzolini si avviò ad una revisione del suo concetto di cultura e lo trovò decisamente dilettantesco, in una lunga confessione a sua volta piuttosto dilettantesca (il Centivio, 1906) che misconosce la sua curiosità credendola transeunte e giovanile vagabondaggio e affaccia il bisogno di una fede, di un’azione religiosa: «C’è nel mondo qualcosa che non può essere vissuto che a patto di essere unico e di possedere l’animo, d’essere preso per sempre, non affittato per ore, di esser una sposa e non un’amante. È l’azione religiosa. Il dilettantismo sarebbe splendido se fosse completo; ma non è completo perché non può necessariamente abbracciare quell’attività, la cui piú fondamentale essenza sta nel non essere dilettantismo. La religiosità dunque non è da essere opposta all’ateismo o all’indifferenza, quanto piuttosto al dilettantismo, dal quale piú che dalla critica scientifica le moderne religioni han da temere». Ma nelle stesse pagine vi è una definizione del «sofista» cui va sempre la sua predilezione. «Vi sono tre attitudini: dello sperimentatore, del dogmatico, del sofista. Il primo dice: qualunque conseguenza si tragga dalla mia esperienza, l’accetterò; il dogmatico dice: qualunque sieno i mezzi, raggiungerò il fine; il sofista dice: secondo i mezzi e secondo i fini io sceglierò questi e quelli. Il primo è schiavo dei mezzi, il secondo dei fini, il terzo comanda agli uni e agli altri». Tale attenzione al minuto relativismo del sofista, della sua aderenza alla ricchezza della realtà e degli ideali, prelude al magistero culturale della «Voce». E non si vedrebbe come questo concetto di una cultura sofistica possa andare d’accordo con un’azione religiosa per sua natura idealistica e affermativa, se non si presentisse in essa l’«idealismo militante» del ’14, la formula che concilia nella stessa sigla prezzoliniana i due estremi religioso-sofistico. È che la curiosità si dava un rigore e un metodo e vibrava di una retorica del fare e dell’impegno che vien solitamente chiamata «protestantesimo» (ma si veda l’effettivo protestantesimo di un altro vociano: Jahier). Se la religione vive tra i due poli della presenza e dell’assenza di Dio e se essa non può piú nascere che dal romantico senso della disperazione (Leopardi e Kierkegaard non sono esistiti per Prezzolini), manca in lui qualsiasi intimità assoluta: egli ha scambiato cioè religione per serietà, misticismo per irrequietezza capace di arricchire di vibrazioni utili («senza tormento non v’è filosofia») una formula. E certo, a questo punto, non ci possiamo dimenticare che vicino ai tumulti papiniani, alle insistenze prezzoliniane per una vita intensa e poi per una cultura nuova e morale, rivolta all’Italia provinciale e «agli ometti di Montecitorio», Carlo Michelstädter affermava, uccidendosi, una sostanziale realtà di liberazione da ogni retorica, sulla quale solamente può basarsi una nuova azione religiosa e morale, e che fra tanti discorsi di concretezza, di valori, di misticismo, l’austera vicinanza dell’ebreo goriziano vibra come avvertimento di una puerile superficialità, mentre la voce di altri morti (Slataper, Boine, Serra) giudica le glorie terrene, i conforti allotri di altri viventi, parla di un loro intimo tradimento a quella cultura troppo vantata, tradimento che ormai a posteriori intravvediamo anche nelle primitive posizioni pur cosí efficaci, stimolanti ed utili nella cultura del primo Novecento.

Prezzolini era cosí maturato alla «Voce» attraverso la vicinanza di Papini, l’esperienza del pragmatismo, del misticismo, del nazionalismo e infine del crocianesimo. È proprio del suo nuovo atteggiamento rispetto al nazionalismo, in seguito al magistero crociano, che ci si può servire per notificare il passaggio dal periodo leonardiano a quello vociano, e la formulazione del nuovo concetto di cultura nato in Prezzolini nel distacco da Papini. Il sorgere del nazionalismo aveva coinciso con l’inizio del «Leonardo», ma, mentre nel «Regno» l’eredità patriottica carducciana e orianesca e l’imperialismo dannunziano mitizzati avviavano il nazionalismo verso «floridi sentieri» di politica pratica, nel «Leonardo» il nazionalismo veniva accolto come energia stimolante agli uomini piú risoluti della borghesia, realtà sociale concreta che avrebbe dovuto riprendere i suoi compiti direttivi: «Non si potrebbe fondare in Italia un comitato di persone facoltose e intelligenti che, non permettendo la maggioranza degli ometti di Montecitorio l’espansionismo di stato, dirigesse l’espansionismo di nazione?» (Vecchio e nuovo nazionalismo). Quindi «borghesi italiani unitevi», fervida raccomandazione di controscioperi, per la vita della nazione borghese italiana. Tale accezione di nazionalismo coincideva con l’irrazionalismo e il pragmatismo di quel periodo, ma certo anche ci indica il carattere illusoriamente concreto di Prezzolini ed un permanere di squilibrio astratto rispetto a quel giusto patriottismo che Fernandez richiede all’uomo veramente umano. Questo nazionalismo energico ed «effettuale», lontano dalla retorica corradiniana (che però formava una tendenza di partito e superava la pretesa praticità dei leonardiani) si mutò, alla nascita della «Voce», in un nazionalismo morale, funzionale ad un concreto rinnovamento italiano. «Mostrar maggior dignità personale, maggior fierezza nei rapporti diplomatici con gli stranieri, sta bene; ma non è meglio lavorare di piú per guadagnarsi questo diritto alla considerazione e al rispetto?». Prezzolini si apriva cosí la strada ad una cultura educativa, ad un compito di volgarizzazione (che arriverà nei tempi di inaridimento fino agli Aguzzingegni per le scuole elementari) piú consono alla sua natura di attiva curiosità che non le affermazioni energiche e il tono papiniano. Il tono di Papini aveva infatti deformato la natura di Prezzolini e le aveva prestato una enfasi ed un linguaggio che cedono ora il posto ad una speciale retorica connaturata con quel che di umile ed orgoglioso, di ragionevole ed entusiastico, di beneducato e di problemistico che ritroviamo oramai libero nella «Voce».

In una delle frasi programmatiche della «Voce», nei primi numeri del 1908, troviamo chiariti per sempre questo tono e questa retorica ed insieme il nuovo concetto di cultura di Prezzolini: «Non promettiamo di essere dei geni, di sviscerare il mistero del mondo e di determinare il preciso e quotidiano menu delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere onesti e sinceri». Le caratteristiche psicologiche del modo di fare accentuano quest’impressione di modesto Dulcamara della cultura, dell’uomo che sa consigliare tutto a tutti, che può insegnare a vivere e vuole fornire il suo corroborante a chi lo vuole e a chi non lo vuole. «Pranzo: il burro è rancido. Ci sono prati magnifici e siamo a mille metri. Mi informo. Il burro viene di fuori, dalla città piú vicina. L’ha comperato e portato su a dorso d’asino, sotto il sole. Domando perché non fanno qui il burro. Non s’è mai fatto. Si può fare, rispondo. Sí??? (occhi sfagiolati dalla meraviglia)». E all’impegno da maestro si aggiunge un frasario da ragioniere: «Ho riflettuto e non sono del loro parere», rappresentazione di una concitazione ragionevole.

I significati pragmatistici ed attivistici (perché Prezzolini non è fuori dei limiti di un nobile amore dell’attività), imperniati sul suo naturale atteggiamento di curiosità, liberati dall’ispirazione papiniana, contribuiscono alla definizione del Prezzolini vociano, lontano dal concetto crociano (è di questo periodo il suo volume su Croce) di cultura come coincidenza di rispetto verso tutto ciò che è valore e forma e di amore ad un proprio valore, certezza della forma in quanto è in noi rivissuta, inappuntabile omaggio ad una operosità che in noi stessi vive e ci supera. Né egli arriva alla posizione del clerc che alla sua libertà assoluta non pone come limite neppure la propria adesione ad un impegno ideale. Se cultura non è impaccio di cui ci dobbiamo liberare per riavvicinarci a dei valori primordiali, se cultura non è civilizzazione, e geografia in cui si articolano libri e libretti, correnti di pensiero, nomi ed indirizzi, ma appassionato arricchimento di una prima e nostra passione intimamente qualificata, Prezzolini si trova in un’ambigua mediocrità: posizione vantaggiosa in tempi facili, ma insufficiente per un compito di cultura che sia piú che organizzazione e possibilità socievole. Ma la sua nozione di cultura e il suo sincero zelo di rinnovamento furon provvidenziali negli anni dell’immediato anteguerra in un ambiente disperso e ricco di temperamenti disponibili, ai quali un invito al lavoro sia pure indiscriminato e un tono sobrio ed entusiastico, un invito alla formazione di una civiltà (nientemeno «fare gli italiani») suonò utile e nuovo. In un Paese in cui l’«elmo di Scipio» aveva sempre contato piú delle misere plebi del Mezzogiorno, un invito alla serietà e alla missione educativa chiedeva una risposta di simpatia. La forma piú vera di Prezzolini è dunque nella «Voce», cosí particolarmente sua che quanti vollero piú sicure o piú personali affermazioni se ne dovettero staccare per fondare altri fogli.

Parlare di Prezzolini significa parlare dunque della «Voce» e veramente è per ciò che egli ci risponde delle relazioni che intercorrono tra la cultura dell’anteguerra e la nostra attuale, anche se la piena vita della «Voce» corrisponde alla presenza intorno a Prezzolini di uomini diversi e in gran parte piú sostanziosi che si svolsero poi fuori della «Voce» (come Cecchi o Longhi), o che, ben diversamente da lui, dettero contributi precisi alla storia della nostra letteratura e della nostra critica (Slataper, Jahier, Serra) affermando spesso già nella «Voce» posizioni piú precise e persino reattive al problemismo e al moralismo prezzoliniano. Ogni discussione sulla «Voce» importa un’impostazione strettamente storica che esclude la negazione e le accettazioni personali e l’accertamento di un compito formativo e preparatorio ad attività politica, sociale, letteraria, critica[1]. Questo carattere preparatorio, non risolutivo, ricorda il sofista Giuliano e si spiega, oltre che con la presenza di spiriti diversi, con l’impronta del direttore, con il suo indirizzo di consigliere e di osservatore attivo, reso piú efficace e piú attraente dalla divisione politica in partiti dogmatici di fronte ai quali era nuovo un atteggiamento di appassionata superiorità. La «Critica» crociana era su di un piano tanto teorico da poter sembrare arido; la «Voce» si mise in mezzo e seppe portare nella pratica un accento di interesse illuminato, di oculato realismo. Perché di questa parola abusata occorre servirsi per l’atteggiamento prezzoliniano di fronte alla vita nazionale: la guerra di Libia no, la guerra con l’Austria sí. Solo che quel realismo naufragava persino nella sua mancanza di riferimento a dei motivi conduttori generali e nella superficialità del tecnicismo prezzoliniano. Sicché mentre egli poteva efficacemente sollecitare e organizzare, in un momento preparatorio e prevalentemente moralistico, il lavoro di spiriti piú intensi, si condannava inevitabilmente ad un irrequieto volgersi a vuoto e all’inaridimento piú piatto una volta che fossero finite le particolari condizioni di quel periodo di cultura. Se riprendiamo le cinque annate della «Voce» foglio (1908-1913), e riascoltiamo la voce monotona ed instancabile di Prezzolini, senza osservare il lavoro degli altri convenuti, e senza considerare il suo valore di stimolo al lavoro altrui, sentiamo svanire tutto in una formula, quella che il Nostro troverà quando nel ’14 rimarrà solo col suo quadernetto giallo: «rivista di idealismo militante». Due insegne che in un clima medio fanno a pugni: chi filosofa non milita e chi milita non filosofa, a meno che si arrivi a soluzioni estreme, ad un clima di profondo umanismo e di profondo romanticismo. Si avverte ora l’equivoco (utile per l’effervescenza che provocò) di una cultura antiaristocratica e le deficienze di un temperamento che vuole educare senza avere un ritmo di personale speculazione. E difatti sopraggiunsero gli avvenimenti straordinari della guerra, della crisi del dopoguerra, dell’avvento del fascismo, ognuno degli uomini aggruppati intorno alla «Voce» dové riprendere le sue vie naturali, sostenere i propri eroismi e le proprie viltà senza che dello spirito vociano restasse piú se non la nostalgia di un singolare fervore.

E si noti che l’atteggiamento di Prezzolini voleva essere la traduzione pratica dell’atteggiamento crociano (l’influenza e la funzione di mito assunta da Croce durante questi anni per Prezzolini ci è testimoniata fin nello stesso tentativo di riprendere quella sorte di nobile humour con cui Croce spazieggia i suoi scritti), ma la sua naturale curiosità con una specie di inganno schopenaueriano gli tese il tranello dell’atteggiamento storico attivo e lo trascinò in una infinità di sminuzzate polemiche, di osservazioni, di reportages intellettuali su tutti i movimenti di cultura che si avviassero in Italia. In quella sua prosa indaffarata, che sente la fretta, come le pagine di Croce sentono la calma vigorosa che le motiva, passano movimenti politici e intellettuali: i saggi sul Cattolicismo rosso, su Cos’è il modernismo, su Teoria sindacalista e Sorel, e Bergson, e Papini, su La Francia e i francesi del sec. XIX. Funzione importante di divulgazione e di stimolo alla discussione in cui manca però un vero punto di vista personale: e Prezzolini sarebbe certamente imbarazzato a dover precisare in un eventuale Contributo alla critica di me stesso in che misura i movimenti studiati abbiano influito sul suo svolgimento spirituale. Si vuol dire che questa posizione di appassionato gusto alla discussione di teorie con forte colorito pratico non si risolve né in storia né in attività e che, se a posteriori si vede l’importanza di fermento dello spirito prezzoliniano, si riconosce però anche la sua origine casuale, strettamente legata al tono stesso della società che può eventualmente aggredire. Non è una coscienza che affermi le leggi sia pure formali della sua etica e persista nel suo vigore originale: può sembrar buffo che lo si rimproveri di non essere ciò che appunto non è, ma chi ha un vivo senso della cultura avverte anche dolorosamente i danni che ad essa derivano da impostazioni inadeguate, armature e non armi, capanne di fiaba che svaniscono al primo soffio del big bad wolf.

In questi saggi egli faceva la mano ad uno stile brioso e giornalistico e si preparava all’impegno piú personale della «Voce» del ’14 attraverso la quale sembrò scivolare nella milizia della pratica fondando la «Voce» politica mentre lasciava ai letterati puri la rivista bianca ed operava cosí quella inevitabile fine della primitiva «Voce» educativa, formativa e specializzata. La «Voce» politica durò poco e Prezzolini rispose completamente alla sua vocazione di volgarizzatore e di osservatore curioso. Di fronte alla guerra egli aveva almanaccato conseguenze di pacifica lotta fra i partiti e la nascita di una vita civile varia ed agonistica: «Ciò che il fanciullo ed il giovane imparano dalla guerra è la capacità di donare l’esistenza per un’idealità superiore. Il coraggio di guerra si tramuta in coraggio di pace, il rischio della battaglia in altezza d’animo che osa avventurarsi nella vita. Le lotte per la bandiera del reggimento diventano le lotte per la bandiera della propria parte. L’onore del soldato, il dovere del militare, la disciplina fonte di vittoria, insegnate ai giovani, si ritrovano poi negli animi loro fattivi di uomo quando partecipano alla vita civile». Le sue velleità morali si sminuzzano in qualche scritterello: Paradossi educativi, Mi pare... ecc., in cui i titoli giuocano tra l’echeggiamento del sofista e quello dell’etico. Il tono che, nella quieta atmosfera dell’anteguerra, poteva prendere interesse e impegno anche dalla discussione sul neo-malthusianismo, durante e dopo la guerra fu completamente vuotato, per il ridicolo, di quel suo contenuto: la retorica del particolare, del piccolo scandalo o della scarsa pulizia degli alberghi si sgonfiava ineluttabilmente a contatto con i mostruosi grafici delle scomparse e con l’ansia della lotta civile.

La realtà politica violenta imponeva una nuova posizione che non era nell’indole del viaggiatore di cultura e d’altra parte richiedeva una ferma sufficienza spirituale che non era nell’uomo pratico, nell’idealista militante. (In una lettera a Gobetti, per la formazione della società degli Apoti, diceva: «Ci vuole che una minoranza adatta a ciò si sacrifichi, se occorre, e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrificio e di eroismo, non dirò proprio per andar contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà».) Dopo un tentativo di portare in tempo socialista la sua missione educatrice («Bisogna partire dalle altezze del popolo, dalla sua morale, dai suoi miti, dalla sua filosofia, dai suoi interessi umani, per raggiungere altre altezze», diceva nel ’19 parlando quasi di una cultura «del» proletariato), Prezzolini si raccolse in alcuni lucidi ritratti del tempo e degli uomini politici piú diversi, quali una biografia di Amendola, di Mussolini e uno scritto sul fascismo, fatto per i francesi, mentre in un opuscolo, in cui Delacroix parlava di primato italiano, egli propugnava la diffusione del libro in Italia. In questi scritti, lontano da affermazioni personali, il suo tono si fa sempre piú circospetto e preciso, perdendo la retorica dell’umiltà e l’afflato entusiastico di chi contribuisce alla salvezza del mondo. Una nuova retorica della obbiettività sopravviene a fornirci l’ultimo ritratto di questo volto arido e insistente. «C’est un livre qui étudie les questions politiques presque comme les problèmes du billard, en signalant la chute des quilles, les coups bien joués et les fautes commises» dice nel saggio sul fascismo, in cui finalmente concede al proprio merito il riconoscimento delle radici del nuovo movimento nella «Voce»[2].

La scialba prosa e l’obbiettività politica annunciano che una nuova guida, una nuova giustificazione culturale s’è presentata a Prezzolini: Machiavelli; è a Machiavelli che si rivolge tutto il suo amore in un libro che ci sembra di definitivo commiato, dato che il saggio su Come gli americani scoprirono l’Italia e il recente Repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana pubblicato dalla Columbia University non hanno un rilievo che ci possa interessare. Machiavelli diventa la chiave apparente di questo realismo prezzoliniano e insieme il simbolo di un toscanismo, di una specie di Italia barbara, cioè non europea, che covava fin dai tempi della Coltura italiana nel contrasto fra la tradizione cattolico-realistica e le aspirazioni allora riformatrici di Prezzolini. Strano apparire di una sorridente saggezza che finalmente crede di interpretare duraturamente la solidarietà dell’uomo con la sua tradizione e la sua razza, strana (ma inevitabile come il cattolicismo di Papini e il classicismo di Soffici) nascita di una comprensione ordinata dopo tanti slanci di europeismo e di rinnovamenti. Ma questa Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino è anche un curioso rigurgito di motivi vociani e leonardiani, un riecheggiamento di aspirazioni letterarie che tentano tradursi in humour e che ridestano modi di fare, passi di compagni di viaggio: i motivi baldi e risoluti di Jahier, le trovate bizzarre alla Papini e i toscanismi goduti alla Soffici. E vi sono spunti critici? Perché a volte si è detto che in Prezzolini c’era la stoffa del critico, trascurato per le sue velleità morali: ma anche qui si riprospetta non solo la mancanza di competenza specifica, ma il solito equivoco di chi vuole piuttosto civilizzazione che cultura, piuttosto socievolezza che solitudine o società. Egli stesso, con il suo premuroso intuito dei suoi limiti, ci parla di quale critica si senta capace: «critica su ogni attività umana, morale, religiosa, politica. In questo senso, in questo soltanto, posso dirmi anch’io un critico poiché nel senso puramente letterario mi è mancata l’educazione e l’allenamento, perché, preoccupato del mio compito pratico, ho lavorato sempre in fretta» (Amici). Soprattutto questa fretta, cosí nemica del gusto della poesia, e cosí naturale in lui, riduce i suoi articoli a puri saggi giornalistici, intrapresi a scopo di volgarizzazione e di notizia, rialzati qua e là da un certo intuito di alcuni nuclei vitali ed utili e quindi piú dall’occhio dell’arruolatore che del critico.

Né si può insomma per Prezzolini uscire dal limitato cerchio di un falso concetto di cultura che lo colpisce a sua volta con la unica categoria dell’utilità, e che, se poté efficacemente, nella sua base moderna e antidogmatica, aiutare lo sviluppo di fermenti morali, estetici e critici nell’importantissimo movimento vociano (inconcepibile senza l’animazione prezzoliniana), doveva inevitabilmente, dopo tanto fervore, inaridirsi in uno schedario bibliografico e in un’attività giornalistica puramente informativa.


1 Chiarii questa posizione della «Voce» in un articolo sulla «Nuova Italia» (20 dicembre 1935) e ne difesi l’importanza e il valore moderno dello stimolo prezzoliniano di fronte alla piú vacua retorica letteraria del convertito Papini in una recensione al libro di A. Bobbio, Le riviste fiorentine del principio del secolo cfr. pp. 35-42 [nota di Binni, 1951].

2 Tale merito di precursore viene ampiamente documentato nel libro di uno scolaro della Columbia University: M. Peter Riccio, On the threshold of fascism, New York, 1929.